La magnifica orda by Bertante Alessandro

La magnifica orda by Bertante Alessandro

autore:Bertante Alessandro [Alessandro, Bertante]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Generica, Narrativa
ISBN: 9788865762271
Google: 9o23lPk2UeQC
Amazon: B00A3U855O
editore: Il Saggiatore
pubblicato: 2012-07-02T22:00:00+00:00


II

Il piscio è giallo scuro, entra storto nel water sporco.

La mano destra appoggiata sulla piastrella del bagno trema, mi fa male il collo e la fitta di dolore arriva fino alle dita, intorpidite. Con la coda dell’occhio sbircio la finestra, passa un istante e la luce plumbea del cielo di Lombardia mi promette una mattina di sicuro malessere.

È il 14 di ottobre e io sono Alessio Slaviero.

Sono disoccupato e stanco.

Finito di pisciare, mi giro e appoggio le braccia al lavandino. L’acqua fresca sulla faccia è un breve conforto, sa di vecchio, di tubi incrostati da decenni.

Sono in casa e sono solo.

Mi rimbomba la testa, la notte scorsa ho bevuto troppo, ero triste, dovevo scacciare l’affanno, il baratro delle mille ombre. Questo mi racconto ogni mattina, ma è solo abitudine, un contenimento dell’ansia dalla tradizione millenaria. Adesso il mio corpo balbetta come quello di un malato, non reggo più l’alcol, non sono più giovane. Minuto dopo minuto spariscono i ricordi, nella testa i cavalieri orientali sono una moltitudine sfumata di corpi in movimento. Dell’orda rimane solo l’odore, quello dura fino al pomeriggio.

Mi lavo di nuovo la faccia, questa volta con il sapone. E poi basta, sono subito operativo, pronto a una nuova giornata. Non faccio colazione, non la faccio mai. Vado in camera e, seppure velocemente, cerco di vestirmi in modo accettabile. Non che abbia molta scelta. Un tempo il mio unico vestito era di buon taglio, grigio scuro con tre bottoni, ma oggi a ben guardare è facile scorgere una radicata trascuratezza. La giacca non è stirata, la camicia neppure e i pantaloni sono un poco lisi alle ginocchia.

Ho un colloquio di lavoro.

Ho smesso di bere il caffè, quindi non mi resta niente altro da fare. Io non ho mai niente da fare, il tempo è la mia disperazione. Allora esco di casa, in anticipo. Eppure la fermata del passante ferroviario è a poche decine di metri. Percorro la breve strada alberata che mi divide dal binario che porta a Milano. Sembra di stare in una vecchia stazione di provincia, ma è falso, intorno a me è tutta una menzogna, le cose non sono vere.

Questo è hinterland ed è un luogo privo di dignità.

Aspetto il treno guardando i pendolari e le loro facce stanche. Vanno a lavorare, loro, e non sono contenti di farlo.

Sono pallidi, di brutta cera, o troppo grassi o troppo magri, rugosi, devastati dallo stomaco e da digestioni infinite. Dio mio, quanta compassione mi fanno. Qualcuno fuma solitarie sigarette che diventeranno decine prima di sera, altri parlottano, altri ancora ascoltano la musica, mestamente assorti, bloccati in una maschera di indifferenza che ricorda la sconfitta.

Nessuno di loro sembra stare meglio di me.

Ma io sono peggio.

Nelle tasche cerco qualcosa che mi occupi il tempo, basterebbe un oggetto, un foglietto di carta, un ricordo.

Non trovo nulla, zero gadget per Alessio Slaviero.

Poi arriva il treno. Carrozze costruite alla fine degli anni settanta e ora coperte di graffiti. Salgo nell’ultima, che finisce con una finestra affacciata sul nulla. Dentro è tutto sporchissimo



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